Dal regno delle due Sicilie alla repubblica delle due Italie
L’acqua alta che nei giorni scorsi ha sommerso Venezia, ha scatenato commenti e polemiche a cui, di fatto, non si è sottratto nessuno, chi scrive compresa, scatenando una polemica dietro l’altra.
“Mi permetta governatore Zaia, … dovrei io meridionale essere solidale con voi? Mi permetta di farle notare che Ella ha uno strano concetto di autonomia… se fosse dotato di una memoria quantomeno decente, dovrebbe ricordare che, appena pochi anni fa, quando il maltempo causò gli smottamenti in Campania con gravi danni alle aree archeologiche, Ella ebbe occasione di chiedersi più volte per quale motivo si sarebbe dovuto concorrere con i soldi dei veneti per quei “quattro sassi di Pompei”. Ora se io fossi come lei dovrei dire, perché bisogna intervenire su quelle quattro “palafitte ammuffite” di Venezia?”
Questo è l’ultimo pezzo che mi è stato inoltrato e di cui ho riportato i passaggi salienti.
Sostanzialmente la prima considerazione che ho elaborato leggendolo è che la politica degli ultimi anni non ha fatto altro che metterci gli uni contro gli altri, in un perverso meccanismo di profondo egoismo sociale e di richiesta di diritti a senso unico.
Con la stessa logica del governatore veneto, che so bene non identificare tutta la regione e meno che mai la città di Venezia, dovrei domandarmi perché la Sicilia, con le coste devastate dalle raffinerie di petrolio, di cui beneficia l’intera Italia, abbia tutto il danno ambientale e nessun vantaggio economico.
Da meridionale, ancora, non posso, tuttavia, fare a meno di riflettere che aiuti, sovvenzioni, sgravi e ogni altra forma di assistenza materiale ed economica ha sempre preso la direzione del nord.
Si potrebbero enumerare il terremoto della valle del Belice, tra le provincie di Palermo, Trapani ed Agrigento che con le sue 345 scosse (la più intensa fu di magnitudo 6,4) rase al suolo 4 paesi, ne danneggiò gravemente altri 13; morirono quasi 400 persone e circa 600 rimasero ferite.
Il sisma lasciò senza casa 9.000 persone distribuite fra tendopoli, carri ferroviari, ed infine in baracche, le ultime 250 delle quali, rigorosamente con il tetto in eternit, furono smantellate soltanto nel 2006, cioè quasi 40 anni dopo il sisma. Imputati principali furono l’inerzia e l’impreparazione dello stato che determinò ritardi di ogni tipo, dall’invio di aiuti alla lentezza della ricostruzione e alla dispersione dei fondi stanziati.
Eravamo impreparati.
Nel 1980, però, il terremoto dell’Irpinia (scossa più forte di magnitudo 6,9), con 280.000 sfollati, 2.914 morti e 8.848 feriti, 70 centri distrutti e 200 seriamente danneggiati, trovò nuovamente lo stato impreparato. Ad essere colpite furono le provincie di Avellino, Salerno e Potenza; i soccorsi arrivarono con cinque giorni di ritardo, a causa della difficoltà di raggiungere i luoghi colpiti, fu la giustificazione addotta. Anche in questo caso la ricostruzione fu lenta e, in alcune zone mai completata.
Eppure, appena quattro anni prima, nel 1976 lo stato aveva avuto modo di cimentarsi con un’altra grande calamità, il terremoto del Friuli, fra i peggiori a memoria d’uomo. I morti in quel caso furono 600 e gli sfollati 100.000, le case distrutte 18.000. I soccorsi arrivarono puntualmente nonostante ci trovassimo sulle Alpi e la ricostruzione fu rapida e completa.
Se poi apriamo la pagina dei danni causati dal maltempo, non c’è regione che non pianga le sue vittime, i suoi disastri, i suoi danni… E allora cosa facciamo? Ognuno pensa al suo territorio, arroccato nell’egoismo del proprio stretto cerchio?
Mi piacerebbe ricordare a tutti i cittadini che seguono le ideologie di quei politici che professano un bieco individualismo, che siamo una Nazione. Non soltanto quando in ballo c’è una partita di calcio e tutti commossi in piedi, con la mano sul cuore cantano l’inno di Mameli. Siamo una Nazione nel bene e nel male. La nostra storia, la nostra cultura, le nostre tradizioni, ci hanno reso tali. Onoriamo questo ruolo mettendo da parte gli antagonismi personali e regionali.
Mi costa dolorosa fatica dirlo e farlo, ma penso che sia giusto.