La Procura della Repubblica di Palermo ha mosso un formale atto d’accusa per il delitto di tortura – per la prima volta da quando esso è stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico – nei confronti di tre cittadini africani, i quali, stando alle ricostruzioni delle vittime e a quella della Procura, usavano sevizie nei confronti di migranti tenuti prigionieri prima di essere caricati sui barconi e affidati al destino crudele di una incerta traversata del Mediterraneo, unica strada per raggiungere l’Europa.
I cruenti racconti delle vittime di tale crimine hanno portato la Procura della Repubblica di Palermo a considerare la Libia un porto non sicuro dove ricondurre i migranti salvati in mare.
Ebbene, gli interrogativi di base che muovono questa breve riflessione sono i seguenti: la difesa della dignità umana di chi diviene oggetto di soprusi rappresenta una battaglia che deve impegnare determinati paesi, gruppi politici e sociali o tutti gli uomini e tutte le nazioni? È davvero necessario assistere ad una contrapposizione politica – e quasi ideologica – tra chi ordina o predica la chiusura dei porti per garantire la sicurezza nazionale, tentando di conquistare le simpatie di una certa parte dell’elettorato, e chi, invece, combatte e si dimena perché i porti rimangano aperti, utilizzando la questione sempre e comunque per scopi elettorali?
Dalla risposta a questi interrogativi dipende l’affermazione del modello che vogliamo imporre alla nostra società, in un contesto culturale e sociale che ci costringe ad operare una sostituzione – ed è questo l’errore – tra il primario obiettivo della difesa della dignità umana e obiettivi propri dell’ideologia consumeristica e su cui questa si regge.
“Quando la persona è vista come un semplice strumento, quando ci si evolve scartando gli inadeguati, quando le relazioni si basano su competizioni nelle quali chi perde soccombe, allora si è in presenza di un modello di società verticale, che ha come valori fondanti la separazione e l’annientamento” (Gherardo COLOMBO, Sulle regole).
Le parole utilizzate da Gherardo Colombo sono dure e rievocano spaventosi crimini del recente passato europeo e mondiale; un recente passato in cui chi era considerato inferiore era destinato alla morte in campi di sterminio.
Sarebbe da incoscienti ritenere che questi crimini non possano più ripetersi. Certo, le forme non potrebbero essere più quelle del passato, ma ciò non toglie che essi possano apparire nuovamente sul proscenio del nostro tempo, sebbene con un vestito diverso.
E la responsabilità di questo rischio non è attribuibile a questo o a quel leader politico che porta avanti certe proposte. La responsabilità di tale rischio è comune a tutti noi, quotidianamente artefici del modello di società in cui viviamo.
Il modello di società verticale cui Gherardo Colombo fa riferimento nel suo libro è caratterizzato dalla gerarchizzazione dell’umanità, in virtù della quale chi non ha capacità per arrivare alla vetta della piramide deve essere scartato e deve occupare i gradini più bassi della gerarchia umana, lasciando quelli più alti agli “eletti”, ossia ai più bravi, ai più furbi, ai più forti.
Ne deriva una divisione della società per classi e il riconoscimento della persona in se stessa e nel gruppo di cui fa parte.
In tale contesto, ciascuno si limita a perseguire, conseguentemente, gli interessi propri e, al massimo, quelli della classe di appartenenza.
Nel modello di società verticale prevale, dunque, l’idea della separazione, della sperequazione, dello scarto.
A tale modello di società si contrappone quello orizzontale, basato “sull’idea che l’umanità si promuove attraverso un percorso armonico in cui la collaborazione di ciascuno, secondo le proprie possibilità, contribuisce all’emancipazione dei singoli e al progredire della società nel suo insieme”.
Tale modello di società è basato sulla convinzione che “ogni persona è in sé apprezzabile, costituisce un valore, una dignità”.
Nel modello di società orizzontale, pertanto, prevale l’idea secondo cui l’umanità può migliorare solo migliorando ogni componente della stessa.
Dinanzi alle vicende e alle scelte che riguardano il nostro paese, è sempre opportuno chiedersi quale sia il modello di società che con esse si vuole costruire, consapevoli anche delle conseguenze che l’adesione ad un certo modello comporta.
In particolare, gli Stati che adottano il modello di società verticale, “non prevedono misure generalizzate per garantire e tutelare il necessario affinché la persona possa formarsi le basi della propria vita, acquisendo gli strumenti per progredire (cioè istruzione, salute, lavoro)”. Questo, in ragione del fatto che, come si diceva innanzi, tale modello di società è basato sulla esclusione, emarginazione e, nei casi più gravi, sulla neutralizzazione delle persone non idonee a scalare la gerarchia dell’umanità.
Ne deriva una strumentalizzazione della persona e il mancato rispetto di essa in quanto valore, con la conseguenza che si arriva a ritenere “giusto” che “il mondo si divida tra agiati e diseredati”.
Viceversa, l’adesione ad un modello di società orizzontale comporta un impiego delle risorse economiche e sociali in ambiti che consentano di garantire il massimo rispetto della dignità di tutte le persone, con un’ampia tutela dei diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla vita.
La nostra Costituzione repubblicana, entrata in vigore il primo gennaio 1948, sembra aderire ad un modello di società orizzontale o, comunque, tendenzialmente tale.
In uno degli articoli che consacrano i principi fondamentali su cui poggia tutto l’impianto costituzionale, si legge che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità […]” (art. 2 Cost., prima parte).
“Riconoscere” non vuol dire di certo “stabilire”, bensì prendere atto di qualcosa che già è in rerum natura. In sostanza, la Repubblica non è dotata del potere di decidere quali debbano essere i diritti fondamentali dell’individuo, ma è tenuta semplicemente a riconoscerli in quanto già esistenti.
Tra i diritti fondamentali vi è, certamente, quello al rispetto della dignità umana. Un diritto che la Repubblica non può scegliere, a suo piacimento, di tutelare o meno, ma che “deve” essere dalla stessa riconosciuto e garantito in quanto già presente in rerum natura.
L’articolo 2 della Costituzione è la disposizione normativa che i nostri padri costituenti hanno utilizzato per indicare alle generazioni future, anche dei giuristi, il modello di società che si doveva e si deve seguire. Un modello di società incentrato sul rispetto della dignità umana e sull’ampia garanzia dei diritti fondamentali dell’individuo, sempre correlata, quest’ultima, all’“adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost., seconda parte).
La nostra Carta Costituzionale, quindi, fa una scelta di campo, affidandoci il difficile compito di tendere alla costruzione di una società orizzontale. Una comunità, cioè, “che non si basa sulle gerarchie, ma sull’idea che l’umanità si promuova attraverso un percorso armonico in cui la collaborazione di ciascuno, secondo le proprie possibilità, contribuisce all’emancipazione dei singoli e al progredire della società nel suo insieme”.
Rileggendo le parole di Gherardo Colombo e soffermandoci sulle stesse, comprendiamo la grande sfida che abbiamo ereditato dai nostri padri costituenti e che, nel nostro tempo più di qualsiasi altro, dobbiamo portare a compimento.
Se si vuole attuare un modello di società orizzontale, è però necessario avere il coraggio di abbandonare qualsiasi tentativo di strumentalizzazione della persona umana, soprattutto per scopi elettorali.
È necessario avere il coraggio di considerare “ogni persona in sé apprezzabile, un valore, una dignità”.
È necessario avere il coraggio di “riconoscere nell’altro la stessa natura che ciascuno vede in se stesso”.