Prosegue il racconto sulla commistione tra mafia e politica
Omicidio di Pasquale Almerico
Segretario della sezione della Democrazia Cristiana di Camporeale, viene assassinato il 25 marzo 1957, in via Minghetti, da cinque uomini a cavallo armati di mitra. Anche un giovane passante, Antonio Pollari, rimase ucciso.
La prima Commissione Parlamentare Antimafia arriva alla conclusione che a decidere la sua condanna a morte era stato il potente capomafia di Camporeale don Vanni Sacco, che era implicato anche nell’assassinio del segretario socialista della Camera del Lavoro, Calogero Cangelosi. Almerico aveva infatti osato rifiutare la tessera della Democrazia Cristiana al boss Vanni Sacco, che aveva militato nel Partito Liberale Italiano e ora voleva esercitare il suo influsso su quello scudocrociato, insieme a numerosi altri mafiosi del paese. Dopo il suo rifiuto, Almerico comincia ad essere minacciato. Decide quindi di scrivere al segretario della DC siciliana Nino Gullotti e informare anche uno dei proconsoli fanfaniani a Palermo, Giovanni Gioia. Almerico denuncia il fatto che la DC di Camporeale avrebbe rischiato di essere conquistata dalla mafia e il pericolo di vita che corre lui stesso, ma i dirigenti del partito non condividono la sua posizione e lo invitano a lasciare l’incarico di segretario della Democrazia Cristiana. Scrive Pio La Torre nel 1976 nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia: “L’onorevole Gioia non batté ciglio e proseguì imperterrito nell’opera di assorbimento delle cosche mafiose nella DC”. Vanni Sacco viene accolto con tutti gli onori nel partito della DC.
Accusato dell’omicidio, sarà poi assolto per insufficienza di prove, per morire nel suo letto il 4 aprile 1960.
Ma dagli inizi del secolo scorso e fino al Secondo Dopoguerra inoltrato, l’elenco di sindacalisti periti di mano mafiosa è davvero lungo. Ci limitiamo a citare i più noti: Accursio Miraglia, Epifanio Li Puma, Calogero Cangelosi, Salvatore Carnevale.
Omicidio di Piersanti Mattarella
La mattina del 6 gennaio 1980, in viale Libertà, a Palermo, quando è appena salito a bordo della propria autovettura assieme ad alcuni familiari, viene fatto segno a colpi di pistola esplosi da un killer.
Verranno condannati, quali mandanti, i vertici della cupola mafiosa: Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Antonino Geraci. Circa l’esecutore materiale, al processo la moglie di Mattarella, testimone oculare dell’omicidio, riconosce il terrorista nero dei NAR Giuseppe Valerio Fioravanti, di cui peraltro viene accertata la presenza a Palermo in quei giorni, ma la testimonianza non è ritenuta sufficiente per emettere un verdetto di condanna a suo carico.
Alcuni pentiti di mafia riferiranno in seguito che la condotta del Mattarella, deleteria per l’organizzazione mafiosa in quanto comprometteva decisamente gli interessi di questa nella gestione degli appalti nella Regione, era stata segnalata al presidente della DC Giulio Andreotti, il quale, pochi mesi prima dell’omicidio, si recò a Palermo per incontrarsi con i mafiosi cugini Nino e Ignazio Salvo, col suo delfino politico in Sicilia Salvo Lima e col capomafia Stefano Bontate, per discuterne. Il processo a carico di Andreotti, come si vedrà a seguire, consentirà di accertare la sua contiguità coi vertici mafiosi fino alla primavera del 1980.
Piersanti Mattarella, nella qualità di Presidente della Regione Sicilia aveva in animo di resistere ad ogni genere di condizionamento mafioso, segnatamente in materia di appalti, ed aveva più volte manifestato pubblicamente l’intenzione di moralizzare la politica della DC nella Regione, per cui si era frapposto da ostacolo agli interessi di Cosa Nostra, che da sempre aveva esercitato il suo potere intimidatorio e corruttivo nei confronti del governo regionale.
Omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa
La sera del 3 settembre 1982 Carlo Alberto Dalla Chiesa, da pochi mesi nominato prefetto di Palermo, esce dalla Prefettura a bordo della propria auto A112, condotta dalla moglie Emanuela Setti Carraro, seguito dall’auto di scorta con a bordo il solo agente di polizia Domenico Russo. Mentre le due auto percorrono la via Isidoro Carini, vengono affiancate da un commando di killer a bordo di una moto di grossa cilindrata e di una BMW, che esplodono al loro indirizzo diverse raffiche di Kalasnikov. Dalla Chiesa e la moglie, raggiunti da numerosi colpi, rimangono cadavere sul posto mentre l’agente Russo morirà alcuni giorni dopo in ospedale.
Per l’omicidio di Dalla Chiesa, della moglie e dell’agente di scorta, sono stati condannati all’ergastolo, come mandanti, i vertici di Cosa nostra dell’epoca: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Nel 2002 è arrivata la condanna anche per gli esecutori: Vincenzo Galatolo, Antonino Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Nella sentenza si legge: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.
Un omicidio politico, non solo mafioso. Il giudice Scarpinato, sentito dalla Commissione Parlamentare Antimafia, ha rivelato ai commissari che Gioacchino Pennino, medico, uomo di Cosa Nostra e massone, diventato collaboratore di giustizia, ha raccontato di aver saputo da altri massoni che “l’ordine di eliminare Carlo Alberto Dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma, dal deputato Francesco Cosentino”. Nessuno dei commissari lo ha interrotto, nessuno ha chiesto spiegazioni. Scarpinato ha proseguito il suo racconto, mettendo a fuoco i complessi rapporti con la massoneria dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, dopo l’eliminazione di Bontate e che Riina e Giuseppe Graviano – gli strateghi dell’uccisione di Giovanni Falcone e delle stragi del ’93 – parteciparono a riunioni massoniche.
Nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che il 5 aprile 1982, poco prima di insediarsi a Palermo, ebbe un colloquio con Andreotti, presidente del Consiglio, al quale disse che non avrebbe avuto riguardi per “la famiglia politica più inquinata del luogo”, aggiungendo: “Non guarderò in faccia a nessuno”. La famiglia politica più inquinata era proprio quella della DC andreottiana.
Omicidio dell’Onorevole Salvo Lima
La mattina del 12 marzo 1992 Salvo Lima, già sindaco di Palermo, ministro e sottosegretario per più governi, ora deputato al Parlamento Europeo, esce dalla sua villa di Mondello, località balneare di Palermo, per recarsi all’hotel Palace a preparare un convegno al quale è prevista la presenza di Giulio Andreotti. Sale a bordo di una Opel Vectra dove sono ad aspettarlo gli amici Alfredo Li Vecchi, professore universitario, e Nando Liggio, assessore provinciale al Patrimonio, quando l’auto viene affiancata da una moto di grossa cilindrata con a bordo due killer. Lima, fiutato il pericolo, scende dal mezzo e fugge a piedi cercando scampo ma i sicari fanno inversione di marcia e lo raggiungono esplodendo alcuni colpi al suo indirizzo, da cui viene attinto. Caduto a terra viene finito con un colpo alla testa. I due amici, scesi dal mezzo, si riparano dietro alcuni ostacoli di fortuna e, nonostante vengano individuati, il commando di fuoco risparmia loro la vita.
Il processo consente di acclarare prove di responsabilità a carico di numerosi componenti della cupola mafiosa, condannati all’ergastolo, mentre gli esecutori materiali Francesco Onorato e Giovanbattista Ferrante (che confessano il delitto) vengono condannati a 13 anni.
Salvo Lima è il capo della corrente andreottiana in Sicilia e notoriamente il plenipotenziario di Giulio Andreotti. E’ al contempo in stretti rapporti con l’organizzazione Cosa Nostra fin dagli anni ’60, dai tempi in cui proprio per il suo operato da sindaco venne portato a compimento il cosiddetto “sacco di Palermo”; l’abbattimento di numerose, pregiate ville Liberty al cui posto vennero costruiti palazzoni di deturpante aspetto architettonico, con appalti tutti attribuiti ai mafiosi.
Nel suo ruolo, egli era riuscito per decenni a mantenere quell’equilibrio tra mafia, grandi imprenditori del settore edilizio e politica, così da assicurare alla mafia il regolare decorso dei propri affari illeciti. E sempre in tale ruolo era colui che assicurava la protezione della politica nazionale alla mafia, soprattutto col potente amico Giulio Andreotti. Per ultimo si era reso promotore della propria intercessione con lui per condizionare l’esito del maxi processo istruito da Falcone e Borsellino nel giudizio di Cassazione.
La previsione che finisse come quasi sempre erano finiti i processi di mafia questa volta, però’, non si avvera, perché Giovanni Falcone, che nel frattempo è andato a occupare un ruolo al Ministero della Giustizia, voluto dal ministro Martelli, ha una delle tante sue felici trovate: la rotazione dei presidenti di sezione in Cassazione, così da sottrarre il processo al noto ammazza sentenze Corrado Carnevale. Ne consegue che l’imprevista trovata di Falcone stravolge le speranze di cosa Nostra e in quella sede vengono comminati diciannove ergastoli e migliaia di anni di carcere agli imputati.
La mafia, soprattutto nella persona del suo capo indiscusso Totò Riina, non poteva sopportare un tale affronto, anche perché il Riina aveva dato assicurazione ai sodali che in Cassazione il processo si sarebbe “sistemato” ed invece la conferma delle condanne ne aveva minato il ruolo di capo. La sua sanguinaria indole, perciò, non lasciava spazio a decisioni più accomodanti: Lima andava eliminato e il messaggio doveva giungere ad Andreotti.
Giovanni Falcone, appena venuto a conoscenza dell’omicidio, ebbe a commentare: <<Si sono rotti gli equilibri…ora può accadere di tutto>>.
E’ proprio quello che si verificherà nei mesi a venire con le più sanguinarie ed eclatanti stragi di mafia che il nostro Paese registrerà in territorio siciliano e nel continente.