RELAZIONE: VACANZE ESTIVE STUDIANDO LA STORIA DELLA MAFIA NEL NOSTRO PAESE 7/giugno/2019 1°Parte
Siracusa
Nel ringraziare la dottoressa Scoleri per l’invito, anche se il mio nome le è stato suggerito da un’amica comune, mi viene spontaneo apprezzare questa sua iniziativa di “scendere” fino a Siracusa dall’alto Nord ad organizzare l’odierno incontro con gli studenti. L’apprezzamento è ancor più sentito perché nel territorio da cui lei proviene solo fino a pochi anni fa’, e forse ancora oggi da qualche sprovveduto osservatore, si sosteneva miopicamente, che la criminalità mafiosa fosse un fenomeno da relegare nel suo habitat naturale, lì dove era nato, dunque nel Meridione d’Italia, perché era fenomeno da attribuire all’indole e ad ataviche mentalità e cultura, che sono proprie del popolo meridionale.
E’ invece cosa oramai risaputa, purtroppo, e non tanto per le informazioni che ci pervengono dagli organi mediatici, quanto perché accertato da sentenze giudiziarie, che il fenomeno mafioso, nelle sue diverse componenti (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita ed altre identità territoriali più o meno circoscritte, ha contagiato tutto il territorio nazionale, dunque anche l’opulento Settentrione, dove il sistema mafioso è stato esportato. Chi aveva sottovalutato il fenomeno, pensando di contenerne gli effetti nei limiti territoriali del suo habitat originario, e chi riteneva che il fenomeno mafioso fosse il prodotto esclusivamente del sottosviluppo del Meridione e lì solo potesse trovare linfa di sostentamento, ha dovuto ricredersi. Ma il danno è oramai avvenuto e ne piangiamo le conseguenze.
D’altra parte l’anomia con la quale lo Stato ha affrontato il problema del fenomeno Mafia non poteva non consentire a questo di evolversi sia sul piano organizzativo che su quello geografico, cosicché oggi ne dobbiamo registrare il contagio in ogni lembo del territorio nazionale. Basti pensare alle infiltrazioni mafiose in ogni grande opera pubblica. E non mi riferisco solo alla Salerno-Reggio Calabria o a tutte le altre che ricadono in territori che sono l’habitat delle varie Mafie (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita), mi riferisco al Mose di Venezia, all’Expo di Milano, alla TAV della Val di Susa, alla presenza mafiosa nella Roma Capitale. Ed è ormai risaputo che vengono sciolti consigli comunali per infiltrazioni mafiose in Piemonte, in Lombardia, in Liguria, in Emilia Romagna. (Bardonecchia e Brescello, per citarne qualcuno).
Piuttosto è da chiedersi: non si è mai affrontata con serietà e determinazione la lotta alla Mafia per una errata valutazione del fenomeno o non lo si è voluto fare per un disegno ben preciso? Se è forse vero che fino a un certo momento della cosiddetta Prima Repubblica abbia potuto influire la volutamente errata valutazione del problema è incontestabile che nel prosieguo temporale si sia realizzata la seconda ipotesi, quella cioè della volontà di convivere col fenomeno, dal quale i potentati politico-economico-affaristici avrebbero potuto trarne giovamento. E quella parte che esprime la componente sana dei nostri vertici istituzionali, che pure esiste, non riesce a contrapporsi in maniera efficace e fattuale, così da risultare sempre perdente.
Cosa sia la Mafia si sa da più di un secolo e mezzo, dunque c’è poco da ostentare la giustificazione della mancata presa di coscienza del fenomeno. Fin dalla fine dell’”800, a qualche decennio di distanza dall’Unità d’Italia, ne relazionarono in dettaglio al Parlamento i deputati Raimondo Franchetti e Sidney Sonnino, ne informarono, a seguire, il prefetto Malusardi e il questore Sangiorgi. Più avanti ne informò il Governo fascista il prefetto Cesare Mori e ai nostri giorni ce ne hanno dato contezza il prefetto Dalla Chiesa, Pio La Torre e tutti gli organi investigativi e giudiziari che si sono occupati del fenomeno. E ne hanno scritto pubblicamente storici e giornalisti (di questi solo alcuni però).
Allora siamo qui a chiederci qual è la ragione di tale stato di cose. Vediamo di darcene una spiegazione, facendo ricorso ad alcune citazioni di esperti in materia, la cui pregnanza non lascia spazio a fraintendimenti di sorta.
Giuseppe Fava, nella sua ultima intervista del 28 dicembre 1983, pochi giorni prima di essere eliminato dalla Mafia: «Mi rendo conto che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione…>>.
Basterebbe solo questa a darcene un’idea ma ce ne sono altre di valutazioni esaustive se pur quasi telegrafiche, che danno l’esatta qualificazione al fenomeno qui attenzionato che mi piace citare.
Il professore Salvatore Lupo, ordinario di storia contemporanea: “La mafia è un rapporto patologico tra criminalità, politica e società”.
Il magistrato Nino Di Matteo: “La mafia è la convergenza di interessi tra criminalità, politica e imprenditoria”.
Ed altra, che trovo particolarmente calzante: Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur (mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata). E’ un’espressione di Tito Livio nella sua “Storia di Roma”, che si riferisce alla inerzia del governo di Roma nel contrastare la penetrazione dei cartaginesi di Annibale nel proprio territorio all’inizio della Seconda Guerra Punica. Non è certo dalle guerre Puniche che voglio partire, se non fosse che l’espressione riveste carattere di attualità in quanto pronunciata dal Cardinale Pappalardo nell’omelia per il funerale del prefetto Dalla Chiesa nel settembre del 1982, quale chiara accusa nei confronti dei nostri governanti.
Ma ce n’è una di citazione che spiega esaustivamente l’essenza della Mafia. Ebbe a dire Giovanni Falcone: “La Mafia non è un cancro proliferato per caso in un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori,
gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione”.
Dunque il nostro tessuto sociale non è sano e, in quanto tale, è un terreno di coltura in cui le organizzazioni mafiose hanno trovato quella linfa vitale per poter non solo sopravvivere per un secolo e mezzo ma per migliorare sempre la propria organizzazione e l’espansione territoriale in aree geografiche fino ad alcuni decenni fa’ indenni dal fenomeno.
E, a ben vedere, non ci viene difficile individuare i mali del nostro tessuto sociale, nelle sue molteplici componenti.
– Semplici cittadini che per tornaconto, pavidità o ignavia, sono protesi alla coltivazione del proprio orticello, ignorando quello che accade loro intorno. Pur testimoni diretti e spesso anche vittime di gravi atti di illegalità, evitano in tutti i modi di mettersi a disposizione della giustizia.
– Dipendenti pubblici che rubano lo stipendio timbrando il cartellino della presenza e andando poi ad attendere alle proprie faccende personali.
– Appartenenti alle forze dell’ordine, che vendono al miglior offerente i propri servigi, ora informando sui segreti di indagini in corso, ora omettendo finanche di eseguire una perquisizione domiciliare in seguito all’arresto di un capo mafia, latitante da decenni (leggi Totò Riina).
– Amministratori pubblici che alterano pratiche amministrative al fine di favorire il parente; o il compare o l’amico in cambio anche di misere prebende.
– Magistrati che calpestano la propria autonomia e indipendenza pilotando a convenienza i processi e finanche vendendo sentenze giudiziarie in cambio di una vacanza ai Caraibi.
– Funzionari ministeriali, parlamentari, sottosegretari e Ministri, che si appropriano del denaro pubblico con semplicità disarmante.
E salendo ancora più in alto nella scala istituzionale:
– Presidenti del Consiglio riconosciuti collusi con la Mafia, con sentenze passate in giudicato, seppure non condannati per intervenuta prescrizione (leggi Giulio Andreotti).
– E ancora presidenti del Consiglio che prima di intraprendere la carriera politica (ma forse anche dopo!?) hanno sostentato la Mafia per anni con le loro dazioni e che poi sono stati capaci di tessere le lodi, definendoli “eroi”, di gente come Vittorio Mangano, pubblicamente conosciuto come capo di mandamento mafioso, e di Marcello Dell’Utri, condannato con sentenza inappellabile per concorso in associazione mafiosa (leggi Silvio Berlusconi).
Segue…