Di seguito, il tema della ragazza seconda classificata all’iniziativa “Lo sguardo dei ragazzi sul valore della democrazia ricordando Giovanni Falcone”
Un mondo alla rovescia. Il delinquente sta fuori e vive la sua vita indisturbato e la gente perbene
che si impegna nella lotta contro la criminalità è condannata all’”ergastolo”, a una vita blindata,
sotto scorta.
È abbastanza paradossale tutto ciò. Perché chi denuncia l’illegalità o la combatte deve rinunciare
alla propria libertà e temere per la sua incolumità, mentre chi commette atti criminali gira
tranquillamente a piede libero? Non è forse un capovolgimento di come le cose dovrebbero essere
in realtà?
Ovunque possa esserci odore di lotta alla mafia o alla criminalità organizzata, lì si troverà un’auto
blindata con uomini armati pronti a tutto pur di allontanare dalla “nota personalità”, qualsiasi
pericolo. Ma a volte non sempre questo basta. Ricordiamo giudici come Falcone e Borsellino che,
seppur scortati, sono stati trucidati dalla mafia.
Uomini di legge, imprenditori che si ribellano agli estortori, cittadini che denunciano gravi atti di
corruzione e di criminalità, tutti accomunati dalla stessa condizione: protetti ma condannati
all’isolamento, che li porta a perdere la loro quotidianità, a non godere della gioia degli affetti
familiari, a dimenticare il piacere di una pizza con gli amici, di una serata al cinema.
È questa la condizione di chi lotta costantemente per smascherare la mafia, ma che alla fine deve
accettare una vita di rinunce per fare qualcosa che in realtà dovrebbe essere normale. Questo è il
caso di molti magistrati come Nino Di Matteo, entrato in magistratura nel 1991 come sostituto
procuratore presso la DDA di Caltanissetta. Divenuto pubblico ministero a Palermo nel 1999, ha
iniziato ad indagare sulle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino oltre che sugli omicidi di
Rocco Chinnici ed Antonio Salta. Si è più volte occupato dei rapporti tra Cosa Nostra ed alti
esponenti delle istituzioni, ed è attualmente impegnato nel processo a carico dell’ex prefetto Mario
Mori, in relazione ad ipotesi di reato eventualmente connesse alla trattativa Stato-mafia.
È proprio durante questo processo che vengono rese pubbliche le minacce da parte del boss Totò
Riina, in seguito alle quali Di Matteo è stato sottoposto ad eccezionali misure di sicurezza. “ Subito
dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio sembrava iniziata una vera e propria rivolta contro la mafia,
a tutti i livelli. Ora c’è un riflusso, una sorta di stanchezza e di fastidio nei confronti si quelle
indagini che mirano a scoprire in che modo la mafia sia ancora ben presente dentro le stanze del
potere.” Sono queste le amare parole di Nino Di Matteo, parole che gli hanno procurato ostilità, ma
che non gli hanno mai fatto perdere la speranza di sconfiggere la mafia.
Ma non solo magistrati, anche molti giornalisti condividono la stessa condizione. Roberto Saviano
è costretto a vivere sotto scorta per aver denunciato attraverso i suoi libri la ‘ndrangheta.
Si giunge a un vero paradosso: chi fa del male viene onorato, per convenienza e paura, e chi,
invece, combatte contro il male viene ripagato con freddezza, o peggio, con insulti, minacce,
talvolta a seguito di un successo, di un arresto eccellente.
“Vivere protetto non ha niente di affascinante, niente di curioso da raccontare ai propri figli, niente
di cui vantarsi con gli amici: vivere sotto scorta è una condanna” queste le parole di Roberto
Saviano.
Talvolta la vera minaccia non è la mafia, ma l’isolamento, la sofferenza e il rischio costante di
perdere la vita. Essere protetti non basta, servirebbero un paio di accorgimenti per rendere le
inchieste più spedite, i processi più efficaci; pochi investimenti per abbattere i costi delle
intercettazioni o per restituire i beni mafiosi sequestrati e messi a marcire.
E invece, che dire di un uomo che non è nato per fare l’eroe? Da chi viene protetto? Chi guarda le
spalle a lui e ai figli? Che dire di tutti quegli imprenditori che hanno avuto il coraggio di denunciare
la mafia, ma che alla fine non sono stati protetti da nessuno? Il 29 Agosto del 1991 in Via Alfieri a
Palermo, moriva Libero Grassi. Non era un poliziotto, un magistrato, un uomo delle istituzioni, era
un comune cittadino che la mafia temeva perché riendicava la sua libertà e la sua dignità.
Denunci e fai bene, ma fatto quel passo non puoi più tornare indietro. Non sei sul sentiero battuto,
qui si parla di fare un salto, un salto nel vuoto. Denunci, perché è giusto farlo, e poi che succede?
Questo vale anche per l’esercito di pentiti che vive ogni giorno temendo per la propria vita e per
quella dei propri familiari. Tra i pentiti di cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra , sono in migliaia a
vivere sotto protezione. Ma questo non ferma la strage e la vendetta di chi , implicitamente, chiede
di mantenere la “ bocca cucita”.
Nonostante la drammaticità di questa situazione, molte persone ogni giorno si impegnano per
distruggere la criminalità, ma non basta essere scortati, c’è bisogno di un appoggio concreto o, in
caso contrario, si presenta il timore di una magistratura, che, come diceva Falcone, “ritorni alla
vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno
bene il loro, dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza dello Stato.”
Jenniffer Scaletta
Classe 4°N
Liceo Danilo Dolci-Palermo