Angelo Migliore

Mafia e politica: intesa consolidata nel tempo. III Parte

Prosegue il racconto sulla commistione tra mafia e politica 

Il Prefetto Cesare Mori

Nel 1926 il Governo fascista di Benito Mussolini, che aveva preso atto della presenza in Sicilia del fenomeno mafia-brigantaggio, invia a Palermo il prefetto Cesare Mori, col compito di esercitare un duro contrasto alla criminalità, concedendogli poteri speciali e competenza territoriale in tutte le provincie dell’Isola.

Non è fuor di luogo ritenere che l’iniziativa fosse stata adottata per aver visto nel potere mafioso un antagonista del regime totalitario, che non avrebbe dovuto essere minimamente compromesso, tuttavia diede incontrovertibilmente i suoi frutti. Giovanni Falcone esprime il suo giudizio sull’operato del prefetto Mori, definendolo l’iniziativa più seria che sia stata mai adottata per contrastare la mafia.

Il solerte e competente Mori, che già aveva avuto modo di impattare col dilagante fenomeno durante analogo mandato svolto a Trapani in precedenza, assieme ai suoi fidati collaboratori, il procuratore generale di Palermo Luigi Giampietro e il delegato di polizia Francesco Spanò, svolge il suo compito con estremo impegno e spirito di servizio, riuscendo, nel volgere di pochi anni, a portare un duro e decisivo attacco al brigantaggio e alla mafia, arrestando e facendo condannare centinaia di criminali, tra cui anche capi mafia. Certo non disimpegnava il suo compito con sistemi del tutto civili e democratici ma il regime fascista era sempre disponibile a chiudere un occhio su ogni principio di democrazia pur di raggiungere qualsiasi scopo che si fosse prefisso. Fatto è, però, che il prefetto Mori, tirando dritto nel suo intento e non esitando difronte a qualsiasi ostacolo, si spinge troppo in alto e inevitabilmente invade il campo interdetto della politica. Riesce a incriminare l’ex ministro fascista Antonino Di Giorgio e il federale e deputato del Partito Nazionale Fascista Alfredo Cucco.

Avendo così toccato i fili dell’alta tensione della politica, non si poteva consentirgli di andare oltre, per cui viene rimosso dall’incarico e poi nominato senatore del Regno, all’insegna di quel principio tutto italiano del promoveatur ut amoveatur.

Aveva compreso tutto il prefetto Mori e in una intervista pubblica ebbe a dichiarare che si sarebbe potuto debellare il fenomeno mafioso non rastrellando solo tra i filari di Fichi d’India ma negli ambulacri del potere.

 

Strage di Portella della Ginestra

Il 1º maggio 1947 si torna a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile, ossia al Natale di Roma, durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in prevalenza contadini, si riuniscono in località Portella della Ginestra, nella vallata circoscritta dai monti Kumeta, Pelavet e Pizzuta, per manifestare contro il latifondismo, a favore dell’occupazione delle terre incolte e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI-PCI aveva conquistato 29 rappresentanti su 90 (con il 32% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa). Improvvisamente dal monte Pelavet partono contro la folla in festa numerose raffiche di mitragliatrice, che si protraggono per circa un quarto d’ora e lasciano sul terreno undici morti (sette adulti e quattro bambini) e ventisette feriti, di cui alcuni moriranno in seguito per le ferite riportate.

Sul movente dell’eccidio vengono formulate alcune ipotesi già all’indomani della tragedia, attribuendone l’opera al bandito Giuliano. Il 2 maggio 1947 il ministro dell’Interno Mario Scelba interviene all’Assemblea Costituente, affermando che dietro all’episodio non vi è alcun movente politico, ma che deve essere considerato un fatto circoscritto alla criminalità locale; in altri termini una semplice bega tra feudatari e contadini.

Il processo di primo grado iniziatosi nel 1950, dapprima istruito a Palermo poi spostato a Viterbo per legittima suspicione, si conclude nel 1952,  con la conferma della tesi che gli unici responsabili sono Salvatore Giuliano (ormai ucciso il 5 luglio 1950, ufficialmente per mano del capitano dei CC Antonio Perenze, alle dipendenze del colonnello Luca, ma di fatto per mano del suo fidato luogotenente Gaspare Pisciotta) e i suoi uomini, che vengono condannati all’ergastolo. Durante il processo, Gaspare Pisciotta lancia pesanti accuse contro i deputati monarchici Giovanni Alliata Di Montereale, Tommaso Leone Marchesano, Giacomo Cusumano Geloso e anche contro i deputati democristiani Bernardo Mattarella e Mario Scelba, asserendo che costoro hanno avuto rapporti con il bandito Giuliano e di averlo istigato a commettere la strage di Portella della Ginestra. Tuttavia la Corte d’Assise di Viterbo dichiara infondate le accuse di Pisciotta poiché il bandito aveva fornito nove diverse versioni sui mandanti politici della strage. Gaspare Pisciotta viene avvelenato con un caffè alla stricnina il 9.2.1954, nel Carcere dell’Ucciardone a Palermo, poco prima che venisse interrogato per le accuse rivolte ai politici.

Salvatore Giuliano, pochi giorni prima di essere ucciso, scrive una lettera inviata al giornale L’Unità, in cui asserisce: <<Scelba vuol farmi uccidere perché io lo tengo nell’incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita>>.

A nulla giovano il processo d’appello celebrato a Roma nel 1956 e la sentenza definitiva della Cassazione del 1960; per la strage di Portella, la prima dell’era repubblicana, non ci sono mandanti politici.

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Omicidio di Placido Rizzotto

Ex militante delle formazioni partigiane durante la Seconda guerra Mondiale, nel dopoguerra, fece ritorno al paese natio di Corleone, ricoprendo il ruolo di presidente dell’ANPI, segretario della Camera del lavoro ed esponente di spicco del Partito Socialista Italiano e della CGIL.

Condusse il suo impegno a favore del movimento contadino per l’occupazione delle terre con fervente determinazione, attività che non poteva non indisporre la mafia e i grossi feudatari ad essa contigui.

La sera del 10 marzo 1948, in contrada Malvello di Corleone, viene rapito e ucciso e ne viene fatto sparire il corpo. Al rapimento assiste casualmente il pastorello dodicenne Giuseppe Letizia che, di nascosto, vede in faccia gli assassini. Nel timore che possa accusare gli autori, viene prelevato e condotto in ospedale, dove il direttore medico Michele Navarra, capomafia di Corleone e  mandante dell’omicidio di Placido Rizzotto, gli fa praticare una iniezione letale, così eliminando l’unica fonte di prova. Ufficialmente l’innocente Giuseppe Letizia è morto per tossicosi.

Le indagini condotte dall’allora capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa consentono di pervenire all’identificazione di tre appartenenti alla manovalanza mafiosa locale, tra cui quel Luciano Leggio poi divenuto il capomafia di Corleone. Vengono arrestati gli altri due, Vincenzo Collura e Pasquale Criscione, reo confessi, mentre Leggio si dà alla latitanza. Il cadavere del Rizzotto era stato gettato nella foiba di Rocca Busambra. Tutti e tre gli imputati, in seguito alla loro ritrattazione, verranno poi assolti con la solita formula della “insufficienza di prove”.

Per completezza di informazione va detto che i resti di Placido Rizzotto solo nel 2012 vengono recuperati nella foiba di Rocca Busambra e, messi a confronto col DNA del padre, nell’occasione riesumato, daranno la conferma della sua identità.

Per decisione del Consiglio dei Ministri il 24 maggio 2012 vengono celebrati i funerali di Stato alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quando si dice la tempestività dello Stato italiano nelle faccende di mafia!

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