Angelo Migliore

La lunga trattativa Stato mafia. Ultima Parte

Prosegue il racconto sulla commistione tra mafia e politica 

Silvio Berlusconi

Unitamente a Marcello Dell’Utri è indagato per le stragi di mafia del 1993, entrambi come possibili mandanti occulti degli attentati a Firenze, Roma e Milano. Il capo della Procura del capoluogo toscano, Giuseppe Creazzo, ha già ottenuto dal Gip la riapertura del fascicolo che era stato archiviato nel 2011. Sono stati così disposti nuovi accertamenti alla Direzione Investigativa Antimafia. Agli investigatori è stato chiesto di passare al setaccio le parole pronunciate in carcere dal boss Graviano, intercettato dai pubblici ministeri palermitani del processo sulla “trattativa Stato-mafia”, mentre parlava delle anzidette stragi con un compagno di cella nel carcere di Ascoli Piceno, forse – ma la circostanza è appunto da verificare – dell’ex Presidente del Consiglio e dell’ex senatore di Forza Italia.

In ogni caso risulta già accertato nel processo di Firenze che Berlusconi fu in stretti rapporti con Cosa Nostra del 1974 al 1992, per il tramite di Marcello Dell’Utri, suo socio in affari, e Vittorio Mangano, mafioso di rango, assunto ufficialmente nel ruolo di stalliere nella villa di Arcore, ma di fatto nel ruolo di protettore dell’intera famiglia di Berlusconi e, al contempo, intermediario con i vertici mafiosi.
In quel periodo l’imprenditore Berlusconi pagava alla mafia una tangente di cinquecento milioni di lire l’anno, in due rate semestrali, perché venissero salvaguardati i suoi interessi imprenditoriali in Sicilia.
Certo il processo potrà anche dimostrare l’estraneità del Berlusconi in ordine alle stragi del 1993 ma una cosa è però definitivamente divenuta incontestabile: egli ha pagato tangenti all’organizzazione Cosa Nostra per un ventennio e non solo nella veste di imprenditore ma anche, come più avanti si vedrà, fino ai primi mesi in cui ricopriva il ruolo di presidente del Consiglio. L’imposizione del “pizzo” ebbe a cessare quando, a mezzo di Mangano e Dell’Utri, Cosa Nostra preferì addivenire con lui a un accordo politico. Se è vero che un tale comportamento non configura alcuna ipotesi di reato è però sconcertante dover constatare che abbiamo avuto un più volte Presidente del Consiglio che ha, quanto meno, foraggiato la mafia. Nessun sussulto di dignità e di moralità, ancora comprensibile da parte propria conoscendo il personaggio, ma da parte dei colleghi di partito, che continuano a nutrirsi alla sua greppia, riconoscendone entusiasticamente il ruolo di capo. E neppure dagli avversari politici, che ancora preferiscono puntargli contro il dito per la vicenda delle “olgettine”, piuttosto che per i suoi trascorsi rapporti con la mafia, al confronto dei quali la vicenda delle “olgettine” si configura come una improvvida, deprecabile goliardata. Ma si sa che il rimestare nel trogolo di
mafia e politica potrebbe prima o poi far emergere tracce di DNA appartenenti anche a propri compagni di partito, dunque meglio evitare.

Raffaele Lombardo
Più volte coinvolto in procedimenti penali, conclusisi con l’assoluzione. Assolto anche in appello da concorso esterno in associazione mafiosa, dopo la condanna in primo grado a sei anni e otto mesi nel 2014 ma condannato a due anni per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso.
Già presidente della provincia di Catania dal 2003 al 2008 e parlamentare europeo dal 1999 al 2008, è stato presidente della Regione Siciliana dal 2008 al 2012. Fondatore e leader del Movimento per le Autonomie.

Processo trattativa Stato-mafia

Il pomeriggio del 20 aprile 2018, la Corte di Assise di Palermo ha pronunciato la sentenza riguardo al processo, iniziato 5 anni fa, sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Condannati per minaccia aggravata a corpo politico dello Stato, artt. 338 e 339 C.p., i boss mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà rispettivamente a 28 e a 12 anni di reclusione. Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia, Antonio Subranni e Mario Mori, ex vertici del ROS dei Carabinieri, condannati a 12 anni. L’ex colonnello dei CC Giuseppe De Donno a 8 anni. Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo già condannato per associazione mafiosa, a 8 anni per calunnia. L’ex ministro Mancino è stato assolto dall’imputazione di falsa testimonianza. È scattata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca.

Non luogo a procedere per Salvatore Riina e Bernardo Provenzano per morte dei rei.
Una sentenza di 5200 pagine che è davvero improbabile condensare in poche righe. Una sentenza scomoda per tanti personaggi di potere della politica. Sarà forse per questo che i nostri organi d’informazione evitano di parlarne o si limitano a qualche telegrafica informazione?
In buona sostanza il processo ha consentito di accertare incontestabilmente che tra il 1992 e il 1994 vi fu una trattativa tra organi istituzionali di alto livello e Cosa Nostra, al fine di addivenire a una sorta di pacifica convivenza e interrompere la stagione delle stragi, che era iniziata con Capaci (omicidio Falcone-cinque morti), era proseguita con Via D’Amelio (omicidio Borsellino-sei morti), poi, nel 1993 Via Fauro a Roma (tentato omicidio del giornalista Costanzo-ventiquattro feriti), Via dei Georgofili a Firenze (Torre dei Pulci-cinque morti e quaranta feriti), Via Palestro a Milano (Padiglione d’Arte Contemporanea-cinque morti e dodici feriti), Basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma (ventidue feriti). E per pura fortuna non si realizzò l’attentato più devastante allo stadio Olimpico di Roma del 23 gennaio 1994, che avrebbe dovuto sterminare un intero pullman di Carabinieri.
Il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia non ha inteso perseguire in se stesso l’accordo intervenuto tra le Istituzioni e l’organizzazione Cosa Nostra, non configurandosi in tale condotta alcuna ipotesi di reato, quanto la minaccia portata dalla mafia contro le Istituzioni, nella figura di alcuni componenti del Governo pro tempore, per esercitare su di loro un condizionamento psicologico, al fine di indurli ad assumere iniziative di natura legislativa che favorissero l’organizzazione. Ed è emerso che effettivamente la minaccia, portata avanti a mezzo degli esponenti dei Carabinieri, raggiunse il suo scopo, tant’è che comportò la sostituzione dei Ministri dell’Interno e della
Giustizia e i vertici del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) con persone più arrendevoli nella lotta contro la mafia. Ne è prova il mancato rinnovo di centinaia di provvedimenti di adozione del regime carcerario del 41bis (cosiddetto carcere duro) a carico di associati mafiosi. Che era il primo punto delle richieste formulate dal capomafia Totò Riina nel cosiddetto papello.
Ma, cosa ancora più grave, il processo ha consentito di accertare che al fine di costringere lo Stato a trattare, e mentre era in corso la trattativa, Cosa Nostra ritenne utile dimostrare sempre di più e con maggiore pervicacia la volontà stragista, affinché i destinatari si convincessero della determinazione che di essa era propria. <>, risulta aver confidato Totò Riina al compagno di socialità in carcere in una intercettazione ambientale.
La trattativa si interrompe nel 1994, con le elezioni politiche, allorché Cosa Nostra trova un definitivo interlocutore politico, che possa garantire un nuovo equilibrio al posto dei predecessori Salvo Lima, Vito Ciancimino Giulio Andreotti e altri, tramite Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri, nel nuovo partito, nel frattempo formatosi, di Forza Italia, nella persona del suo fondatore e capo Silvio Berlusconi. Personaggio peraltro già ben conosciuto e “collaudato” da Cosa Nostra per via di rapporti pregressi che risalivano agli anni settanta, avendola finanziata lautamente per circa un ventennio, come si è visto nel paragrafo a lui dedicato che precede. Anzi, in questo processo, emerge che addirittura il Berlusconi avrebbe continuato a pagare la tangente a lui imposta fin quando non furono stabiliti i patti di reciproca assistenza, cioè fino agli ultimi mesi del 1994, dunque anche nel ruolo di presidente del Consiglio dei Ministri, carica che questi aveva già assunto.
E c’è di più: nel processo emerge incontrovertibilmente che in sede di dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Palermo i più reticenti e
“smemorati” nelle dichiarazioni rese, al di là del millantatore e calunniatore Massimo Ciancimino, sono proprio i personaggi politici chiamati a testimoniare; nessuno di loro sapeva della intercorsa trattativa tra gli esponenti dei Carabinieri Subranni, Mori e De Donno e la controparte. Peraltro le poche ed oramai inevitabili ammissioni intervengono a distanza di circa vent’anni dai fatti, quando i politici vengono chiamati in causa da Massimo Ciancimino e dai pentiti.
E tra questi assumono un ruolo di rilievo due presidenti della Repubblica: Oscar Luigi Scalfaro, che è colui che promuove la sostituzione di Ministri e dei vertici del DAP con elementi più inclini alla trattativa per venire incontro ai desiderata dei vertici mafiosi; Giorgio Napolitano, che, pur di non presentarsi in un’aula giudiziaria, come si converrebbe tanto più per il primo cittadino di uno stato di diritto, si rivolge alla Corte Costituzionale per sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ottenendo la distruzione delle registrazioni di conversazioni con il Ministro Mancino che aveva a lui chiesto l’intercessione per evitare l’imputazione, e promuove azioni disciplinari nei confronti dei Pubblici Ministeri che hanno osato chiederne l’audizione.
Questo processo non s’aveva da fare: secondo la politica (tutta) innanzitutto; secondo gli organi mediatici (quasi tutti); secondo l’opinione pubblica (in buona parte), artatamente male informata; secondo anche alcuni magistrati; e persino secondo alcuni quotati opinionisti ben addentro alle questioni di mafia: il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico Salvatore Lupo. “Una boiata pazzesca”, “una caccia alle streghe”, “un teorema per incastrare poveri innocenti”, “un tentativo del mondo giudiziario di abbattere i pilastri della democrazia”, “magistrati arroganti, alla ricerca della prima pagina dei rotocalchi, che fanno sperperare il denaro pubblico”; sono solo alcune delle considerazioni espresse pubblicamente da rappresentanti delle aree suddette. E invece il processo si fa e riesce a dimostrare che proprio quando si è per transitare dalla Prima Repubblica, ormai in sfacelo con l’inchiesta di Tangentopoli, alla Seconda Repubblica, che i cittadini onesti auspicavano migliore della prima, ci si rende conto che l’esordio avviene all’insegna dell’immondo accordo con la mafia ed è bene accetta da questa che la tiene in pugno.

Le parole di Nino Di Matteo, il primo requisitore al processo sulla trattativa

<<Noi non possiamo dimenticare il passato. Dobbiamo coltivare la memoria affinché non sia soltanto un puro esercizio retorico concentrato sul 23 maggio, il 19 luglio o il 6 gennaio, parlando di delitti eccellenti. Ma lo dobbiamo fare con intelligenza e con una consapevolezza precisa. Dobbiamo conoscere perché solo la conoscenza e la memoria possono contribuire a migliorare il nostro futuro. E per questo dobbiamo capire che la mafia non è solo quella macelleria criminale rappresentata dai Riina, dai Bagarella e dai Provenzano, ma si contraddistingue per quella sua tendenza ad instaurare e mantenere rapporti con il potere. E ciò è dimostrato anche da sentenze come quella Andreotti, quella Dell’Utri, Cuffaro o Contrada>>.

Commentando anche la recente relazione della Commissione antimafia Di Matteo si è soffermato su quanto detto dalla Presidente Rosy Bindi. <<La Commissione ha scritto che emerge che con ogni probabilità, in riferimento alle stragi del 1992 e del 1993, Cosa Nostra non agì da sola. E c’è l’auspicio che la prossima Commissione si occupi, tra le altre cose, anche di questi aspetti per fornire al Paese una verità che sia completa. Perché la ricerca della verità passa necessariamente anche dall’analisi politica. In questo momento siamo di fronte ad una verità parziale ed una verità parziale equivale ad una verità negata>>. Ed infine conclude: <<Appartengo a quel novero di magistrati, un po’ pochini a dire il vero che considera la ricerca della verità sul passato altrettanto importante della ricerca della verità sul presente. Fino a quando ci sarà uno spiraglio per arrivare alla verità, i capitoli non possono mai essere considerati conclusi>>.

A corollario della nostra carrellata, seppure sembrerebbe del tutto superfluo, nella misura in cui fatti e circostanze narrati appaiono in sé di estrema eloquenza, si impone una breve considerazione.

Non è chi non veda nella esposizione degli accadimenti da circa un secolo e mezzo registrati nel nostro Paese quale sia l’effettiva essenza della mafia. Dato per certo che essa nasce in un’area geografica ben individuata per ragioni storico-sociali, che trovano anche terreno fertile nell’indole atavica dei suoi abitanti, è però doveroso chiedersi come sia stato possibile non solo la sua sopravvivenza quanto la sua evoluzione organizzativa e soprattutto territoriale, così da invadere l’intero Paese. E quali sono le ragioni che le hanno consentito di contagiare le opulenti aree del Nord, fino a spingersi ancora oltre i limiti territoriali del nostro Paese. Con buona pace di tutti coloro che, per interesse o ignoranza, ritenevano di poter contenere il fenomeno nei limiti geografici in cui aveva avuto i natali. Non ci avrei mai creduto se non l’avessi udito di persona, in diretta televisiva: <<Ma si! La mafia è un fatto siciliano, tra siciliani e dunque facciamola sbrigare ai siciliani>>, affermazione testuale pronunciata da un giornalista di primo piano nel panorama nazionale. Cogitazione semplicemente offensiva dell’intelligenza dei telespettatori.

E che dire delle valutazioni espresse da qualche giornalista, oltre che da una buona parte dell’opinione pubblica del nostro acculturato Settentrione soprattutto ma anche da nostri conterranei, nel commentare l’arresto di Totò Riina nel gennaio del 1993 diffuso da tutte le emittenti televisive?:  <<Ma chi era questo il tanto decantato e sanguinario capomafia che ha tenuto sotto scacco la Sicilia per decenni? E ci voleva tanto per arrestarlo?>>. E nel 2006 la cattura di Bernardo Provenzano: <<Ma che capo mafia è uno che si rifugia in casa di un pecoraio e si nutre di cicoria e ricotta?>>.

Evidentemente indotti a una tale superficiale valutazione dal solo aspetto fisico e culturale che ne denotava le origini agresti. Dimenticando che erano due tra i peggiori criminali quanto meno nel nostro Continente  e proprio loro le menti della stagione stragista, come si accerterà nel prosieguo, quali mandanti delle stragi di Firenze, Milano e Roma. Eventi che avevano messo letteralmente in ginocchio lo Stato, al cui cospetto si presentavano non tanto alla pari quanto in una posizione di supremazia, pretendendo quanto richiesto a favore dell’organizzazione da loro diretta per porre fine alle stragi.

Altri hanno voluto sostenere che la mancata sconfitta della mafia è dovuta semplicemente al fatto che la maggior parte dei magistrati e delle forze di polizia non hanno mai condotto un serio ed efficace contrasto.

A costoro vorremmo far rilevare che la criminalità di tipo mafioso è un fenomeno non solo criminale ma anche sociale e, in quanto tale, non può in alcun modo venire debellato dagli organi investigativi e giudiziari. Questi sono deputati a perseguire comportamenti illeciti da attribuire a ben individuati soggetti che ne sono i responsabili, applicando le leggi vigenti, e non fenomeni sociali, per i quali necessita un ben determinato indirizzo politico. Dunque la politica, coi suoi organi legislativo ed esecutivo, avrebbe dovuto intervenire nel corso degli anni con appropriati, efficaci e risolutivi provvedimenti. La qual cosa non è mai avvenuta, anzi scientemente si è fatto il contrario di quanto le esigenze  consigliassero, da parte di tutte le aree politiche dell’arco costituzionale e non, ad eccezione di occasionali e temporanee iniziative in occasione di eventi eclatanti, la cui adozione era imposta per tacitare l’opinione pubblica. Evidentemente si è sempre avuto il timore di scombinare un equilibrio che fa comodo a tutti; quell’equilibrio che consente alla politica di coltivare meglio i propri interessi di partito e personali. Se poi si aggiunge che nella commistione di interessi si inseriscono anche i potentati economico-affaristici, che hanno sperimentato la loro convenienza nei rapporti con la mafia, ne viene fuori un perfetto “comitato d’affari” praticamente istituzionalizzato, che può solo essere scalfito dalle indagini giudiziarie, ma mai debellato.

Va da sé che in tale stato di cose la criminalità di tipo mafioso, con arguta intuizione, ha da sempre ben compreso l’atteggiamento della politica e la tendenza dei potentati economici ad avvicinarla, nel comune interesse.

Dunque, fin quando non verrà alla luce l’identità di quelle “menti raffinatissime”, di cui parlava Giovanni Falcone dopo il fallito attentato da lui subito nella villa dell’Addaura, non se ne verrà mai fuori. Si tratta di quel tanto misterioso, cosiddetto “terzo livello”, che non si sovrappone alla mafia nella scala piramidale, giacché questa rimane comunque in una posizione di supremazia, ma di quelle entità politiche che forniscono un contributo fattuale all’organizzazione, tale da consentirle di sopravvivere sempre. I processi più importanti celebratisi nel nostro Paese in materia di mafia hanno sempre dimostrato che allorquando si era sul punto di penetrare negli ambulacri del potere politico si alzava quel “cono d’ombra” blindato e perciò insuperabile. Inoltre, mentre è stato possibile scardinare organizzazioni mafiose con l’apporto fattivo dei collaboratori di giustizia (cosiddetti pentiti), che rappresentavano il sistema mafioso dall’interno, non si sono mai visti “pentiti di Stato”. Qui, evidentemente, si procede sempre all’insegna del “sempre insieme, appassionatamente”.

 

Allora quali i rimedi?
Non ci rimane che ribadire quanto continuiamo a ripetere da sempre, che non è solo il pensiero di chi scrive, ma quanto vanno sostenendo personalità ben più quotate che nell’attività antimafia assumono – in alcuni casi purtroppo “assumevano” perché non sono più tra noi – un ruolo preminente. Una svolta, una vera rivoluzione culturale che non può non iniziare dalle scuole. Dunque informare ed educare le nuove generazioni a una cultura contro la mafia e contro la corruzione, per formare nuove classi dirigenti votate a quella onestà intellettuale, a quella tensione morale che consentano loro di svolgere il proprio ruolo sempre e comunque nell’interesse del Paese e della collettività.
Ma nessuno può essere in grado di azzardare previsioni sul “quando” tale progetto possa vedere la sua fattiva realizzazione nel nostro sgarrupato Paese.