Mauro de Mauro, nato nel 1921 e originario di Foggia, si era trasferito a Palermo nell’immediato secondo dopoguerra. Dapprima cominciò a collaborare con alcuni giornali. Poi iniziò la sua attività giornalistica vera e propria al quotidiano palermitano “L’Ora”. Aveva svolto numerose inchieste sul fenomeno mafioso, sulle anomalie nel campo dell’edilizia e sugli intrecci della politica col malaffare.
Pochi mesi prima del suo rapimento, era stato destinato a capo dei servizi sportivi de “L’Ora”, dove continuava, con meno frequenza, ad interessarsi dei fatti criminali più eclatanti, con puntuali e dettagliate inchieste che riguardavano la mafia ed il traffico di droga.
Intorno alle 20, 30 del 16 settembre 1970 il giornalista lasciò la sede del giornale e si diresse a bordo della sua BMW coupé verso casa. Si fermò, come faceva tutte le sere, presso un bar tabacchi dove acquistò del caffè tostato, una bottiglia di vino e due pacchetti di sigarette. Giunto nei pressi della propria abitazione, incrociò una Fiat 500 con a bordo la figlia ed il fidanzato. La figlia attese nell’atrio del palazzo che il padre parcheggiasse l’auto, per poi salire insieme con l’ascensore.
La ragazza, vedendolo tardare, uscì dall’atrio e fece appena in tempo a vedere il padre all’interno della propria auto in compagnia di altre tre persone, nel frattempo, ne scorse una quarta che aprì lo sportello e si mise al volante, sentì provenire dall’auto voci di persone che parlavano concitatamente. Ad un certo punto, dirà successivamente il fidanzato della ragazza agli inquirenti, “sentii una voce provenire dall’auto dire perentoriamente: – amuninni! -”(andiamocene). Tale termine viene proferito in tono perentorio ed è da intendersi come un ordine). L’auto con a bordo i cinque partì.
La figlia in un primo momento, pensò che il padre fosse stato chiamato al giornale e che fosse successo un fatto importante di cronaca che richiedesse la sua presenza. De Mauro quella notte non fece ritorno a casa. L’indomani la moglie, dopo essersi consultata con le figlie, decise di recarsi presso gli uffici della squadra mobile per sporgere denuncia di scomparsa.
Dopo la denuncia di scomparsa sporta alla Squadra Mobile di Palermo il Capo della Polizia Angelo Vicari investe per le indagini il questore di Palermo Li Donni il quale mette in campo gli uomini allora ritenuti i migliori: i commissari Boris Giuliano e Bruno Contrada. Vicari convinto che tra i responsabili della scomparsa del giornalista vi sia anche Luciano Liggio, invia a Palermo l’allora vice questore Mangano a quel tempo in servizio presso il Ministero dell’Interno a Roma.
Il 1° ottobre il questore Li Donni, il capo della Mobile di Palermo Nino Mendolia, il commissario Boris Giuliano ed il vice questore Mangano sono a colloquio con la signora Elda moglie di Mauro De Mauro e con il fratello del giornalista, prof. Tullio. Subito dopo l’incontro Mangano redige un appunto dell’incontro.
“1 ottobre 1970 -APPUNTO”
“Dopo qualche giorno dalla scomparsa del giornalista De Mauro Mauro, tale Buttafuoco Antonino commercialista residente a Palermo, si è recato in casa della famiglia De Mauro, promettendo il proprio interessamento in favore del congiunto. Qualche giorno dopo telefonicamente informava la signora De Mauro, parlando con linguaggio simulato, che la “pratica” andava bene e che aveva consultato gli “esperti”. Era necessario però aggiungeva, di avere molta fiducia e che tutto si sarebbe risolto bene non appena avesse superato alcune difficoltà. Il giorno 26 (settembre 1970 -n.d.a) le redazione de “L’ORA” riceveva per posta una bobina con la seguente incisione: “De Mauro sta bene, presto ritornerà se riuscirà ad arrangiarsi”. Il giorno successivo il Buttafuoco chiedeva telefonicamente al prof. De Mauro, fratello del Mauro se aveva ricevuto notizie orali. Alla risposta che era giunta una registrazione, il Buttafuoco rispondeva “esatto!”, come se fosse a conoscenza. Il Buttafuoco assicurava il ritorno del giornalista al 98 -99% e si impegnava a farsi rivedere il lunedì successivo. Il prof. De Mauro non avendo sentito il Buttafuoco, il mattino di martedì telefona a quest’ultimo il quale si mostra molto risentito e timoroso, poiché era venuto a conoscenza che la Polizia aveva ritirato presso l’ufficio patenti della Prefettura una sua foto e che tra l’altro aveva personalmente constatato di essere pedinato. Il Prof. De Mauro escludeva che la Polizia poteva interessarsi a lui e concordava un appuntamento per lo stesso giorno nell’ufficio del Buttafuoco. Durante questo colloquio, pur senza dare alcuna prova, Buttafuoco continuava a dare le assicurazioni che il fratello Mauro sarebbe presto rilasciato e lo informava che non aveva potuto sentire due alti personaggi in quanto questi avevano paura di farsi notare per timore di essere scoperti e che nei prossimi giorni avrebbe dato ulteriori notizie. Nel corso della discussione, escludeva la responsabilità della mafia di Trapani e Agrigento e che il caso doveva ritenersi ristretto nell’ambito della città di Palermo. Analoga discussione il Buttafuoco la sosteneva il giorno 30 settembre con la moglie del De Mauro (…)”.
Antonino Buttafuoco
Mangano provvede immediatamente ad inviare copia del presente appunto alla Questura di Palermo. Nel frattempo il 19 ottobre Antonino Buttafuoco viene arrestato con l’accusa di sequestro di persona, articolo 605 del codice penale.
Dopo l’incontro, Mangano torna a Roma per dedicarsi alla ricerche di Liggio (1) ma al contempo concentra la sua attenzione su Antonino Buttafuoco. La figura del commercialista gli ricorda l’identikit di una persona che molto spesso andava a trovare Luciano Liggio mentre era ricoverato presso la clinica Villa Margherita a Roma circa un anno prima.
Mangano dunque chiede alla Questura di Palermo delle foto di Buttafuoco, per mostrarle alla suora che lavorava come infermiera presso la struttura sanitaria nel periodo in cui Liggio vi era ricoverato. La religiosa era stata nel frattempo trasferita a Venezia, quindi Mangano contatta il dr. Salvatore Barba dirigente della locale Squadra Mobile e gli chiede di rintracciare la suora e verificare se Buttafuoco ritratto in foto, che si stava interessando al caso De Mauro , fosse lo stesso uomo che regolarmente si intratteneva con Liggio presso Villa Margherita.
Il 31 ottobre il dottor Barba comunica a Mangano che la suora gli aveva confermato che la persona ritratta in foto era l’uomo che andava regolarmente a trovare Liggio a Villa Margherita. Lo stesso giorno Mangano contatta il dott. Mendolia Capo della squadra Mobile di Palermo e gli comunica la notizia, gli chiede dunque di inviare alla Questura di Venezia delle foto di un parente acquisito di Buttafuoco (colui il quale aveva accompagnato con la propria auto Buttafuoco presso la casa di De Mauro per parlare con la moglie Elda ed il fratello prof. Tullio), per verificare se questi si fosse recato a volte anche lui da solo o assieme a Buttafuoco presso la struttura sanitaria dove era ricoverato Liggio. Nel frattempo il dr. Barba invia alla Questura di Palermo una copia del verbale con le dichiarazioni della suora.
Le foto del parente acquisito in mano alla Polizia di Palermo sono parecchio datate, quindi Mangano contatta la Criminalpol di Milano, dove vive il congiunto di Buttafuoco e chiede ai colleghi di convocare quest’ultimo presso la locale Questura. Il 5 novembre, alla presenza di Mangano, l’uomo viene interrogato. Nel frattempo a sua insaputa gli vengono scattate alcune foto, le quali vengono inviate alla Questura di Venezia per farle visionare alla religiosa. Non appena fatte vedere le foto alla suora, quest’ultima conferma che l’uomo che vi è ritratto è lo stesso uomo che qualche volta accompagnava Buttafuoco da Liggio durante la sua degenza presso “Villa Margherita” a Roma. La religiosa però rifiuta di rendere dichiarazione scritta per paura di eventuali rappresaglie.
(1) – Liggio insieme ai corleonesi fu assolto al processo di Bari con sentenza del 10 settembre 1969. La sera stessa in cui venne emessa la sentenza di assoluzione, Luciano Liggio e Salvatore Riina lasciarono Bari. Tecnicamente Liggio, una volta scarcerato, sarebbe dovuto nuovamente essere tratto in arresto. Infatti il tribunale di Palermo aveva emesso un’ordinanza con la quale si richiedeva l’arresto di Liggio, in attesa della decisione d’assegnazione al confino di polizia.
I due si recarono a Bitonto e lì venne notificato loro, dalla questura di Bari, un foglio di via obbligatorio per Corleone. Riina raggiunse Corleone. Liggio si recò a Taranto e venne ricoverato nell’ospedale cittadino presso il reparto di malattie infettive. Il primario di quel reparto, al momento del ricovero ne dette comunicazione al questore di Taranto. Nonostante ciò, il 7 luglio 1969 il nome di Liggio comparve sul bollettino dei ricercati.
Il 28 settembre venne dimesso dall’ospedale ed anziché recarsi a Corleone si recò a Roma e si fece ricoverare nella clinica Villa Margherita dove, il 18 ottobre, venne sottoposto ad un delicato intervento chirurgico alla prostata. Il 19 novembre Luciano Liggio lasciò la clinica, si disse, travestito da suora, eludendo così la sorveglianza della polizia esercitata evidentemente in forma “troppo discreta”.
Da quel momento Liggio era nuovamente latitante. Punto e a capo dunque. A questo punto, la notizia della non reperibilità del mafioso divenne di dominio pubblico. Nel Paese esplosero rabbia, indignazione ed anche ilarità. Nel frattempo con sentenza d’appello emessa il 23 dicembre 1970, Liggio fu condannato all’ergastolo. Verrà arrestato a Milano nel 1974 dalla Guardia di Finanza dopo circa 4 anni e mezzo di latitanza.
Fine prima parte. Continua…