Francesca Scoleri

Bonafede Di Matteo: Ora conoscere i retroscena è fondamentale. Magari non in postriboli televisivi

Da una parte, un Magistrato che incarna la lotta alla mafia; un pm che ha dimostrato con lavoro certosino e da grande professionista, cosa accadeva veramente dietro stragi e morti eccellenti dei primi anni 90 e che in questa direzione, continua ad operare.

Un lavoro che svolge su campo minato, oggi come in passato quando da più parti, arrivavano attacchi e siluri di delegittimazione alternati a minacce di morte. L’uomo che ci ha fatto conoscere la portata storica della sentenza trattativa Stato-mafia, un barlume di verità in tanti anni di depistaggi e misteri mirati a coprire nomi eccellenti, alcuni dei quali, oggi sono finalmente condannati, seppur in primo grado.

Dall’altra, un ministro che, nella medesima direzione, ha proposto e realizzato norme importanti attirandosi il disprezzo, insieme al suo partito, di gran parte degli organi di informazione che notoriamente non guardano all’efficienza delle leggi ma alla ricaduta sui propri padroni/editori e su tutto l’indotto di amici/complici.

Il teatro della matassa da districare, lo studio di Massimo Giletti convinto ormai di rappresentare la sede distaccata della Procura Nazionale Antimafia rivestendo ovviamente il ruolo di super procuratore.

Questo è quello che accade nella sua fantasia penetrata da una forma di narcisismo da sottoporre a serie considerazioni. Nella realtà invece, vediamo uno studio paragonabile alla casa dei tre porcellini dove se la cantano e se la suonano e l’autocelebrazione è il leitmotiv.

Nino Di Matteo, a seguito di informazioni infondate, ha ritenuto di intervenire nella trasmissione Non è l’Arena andata in onda ieri sera, per dichiarare quanto accaduto intorno alla nomina di capo del DAP nel 2018 quando, buona parte di cittadini, auspicava fosse proprio lui.

Il Ministro Bonafede chiama Di Matteo e gli propone l’incarico anzi due; oltre alla direzione del DAP, gli chiede di considerare anche la guida degli Affari Penali, il posto che fu di Giovanni Falcone. Il Magistrato chiede 2 giorni per pensarci ma quando torna con la risposta – accettare la guida del DAP – trova un Ministro che è tornato sui suoi passi.

Viene menzionato un altro fatto inerente; la reazione di detenuti eccellenti che alla possibilità di vedersi diretti da Di Matteo, avrebbero minacciato reazioni di non poco rilievo. Il Magistrato era visto infatti come una minaccia a libertà di cui peraltro, non devono godere nè sperare di ottenere. Motivo  in più per procedere nella nomina dunque.

Il messaggio che passa di bocca in bocca nello studio è che il ministro Bonafede sia tornato sui suoi passi a causa di queste minacce. Un fatto gravissimo che lo spinge a telefonare a sua volta in trasmissione.

Che una cosa tanto delicata sia passata per gli studi La7/Mediaset – stessa linea editoriale – è un fatto gravissimo quanto la totale disattenzione nel sottovalutare l’inadeguatezza del confronto in quella sede, con quelle figure.

Prova ne è stata la maleducazione del conduttore che dopo aver avuto il suo scoop, ha liquidato entrambi come indesiderati ospiti.

Ma entriamo nel fulcro della notizia confidando vi siano nuove dichiarazioni da parte di entrambi e, diversamente da quanto accaduto ieri, in contesti degni. Magari a breve.

Partiamo innanzitutto da un fatto; quando si formò il primo governo Conte col M5S forte del 32% di voti, buona parte dei cittadini che ben conosceva il valore professionale del Magistrato Di Matteo, si attendeva di vedere lui e non altri “ministro della Giustizia”.

Non semplici considerazioni a seguito di voci diffuse da chissà chi, ma semi certezze che gettarono poi nella curiosità di capire come mai non andò cosi. Ancora oggi è un mistero. Non servivano grandi strumenti intellettuali per comprendere che il giovane Alfonso Bonafede non vanta la storia e l’esperienza del magistrato siciliano.

Tuttavia, non ha tradito le aspettative di chi sperava in un cambio di rotta nel contrasto alla mafia ed alla corruzione; inasprimento delle pene, agente sotto copertura, trasparenza sui finanziamenti ai partiti, trojan informatico, blocco della prescrizione, interdizione dai pubblici uffici per i corrotti e tutto, in meno di due anni.

Misure che sono costate care ed amare al M5S perché in questo Paese, la lotta a mafiosi e corrotti non paga, soprattutto alle urne. Si fatica infatti a comprendere le ricadute di un sistema fondato sulla corruzione in quella che è la vita democratica ed economica di un popolo.

Gli italiani – in modo realistico – sono soggetti a due codici penali differenti, uno per i poveri disgraziati e uno per quelli che contano, economicamente e politicamente.

Di fatto però, ai cittadini non è pervenuto il senso di giustizia che provvedimenti anti corruzione possono rendere divenendo il primo anello di una catena virtuosa. I benefici di una seria lotta alla corruzione, si evidenziano dai dati che arrivano dal nord Europa – ad esempio – dove la qualità della vita cresce parallelamente al  bassissimo tasso di reati contro la pubblica amministrazione.

Dove la competizione fra imprese non è inquinata da aiutini riservati ad alcune a danno di altre.

Un Paese che non brucia milioni in corruzione, è un Paese che ha fondi per sostenere il welfare, per investire sull’occupazione e sulla ricerca, per offrire ottime opportunità scolastiche, per garantire a tutti il diritto alla salute e, cosa non trascurabile, per affermare con pienezza, che “la legge è uguale per tutti”. Frase che da noi ormai è stata relegata a barzelletta eccellente.

Nino Di Matteo, come altri autorevoli magistrati, si è sempre espresso positivamente sui provvedimenti proposti e realizzati in questi due anni in materia di Giustizia e lo ha fatto senza dubbio dall’alto della sua caratura professionale.

Proporre una carica non all’ultimo arrivato ma a Nino Di Matteo e poi tornare sui propri passi è francamente incomprensibile. Se consideriamo dunque i requisiti sin qui dimostrati dal ministro in materia di lotta alla mafia, riesce difficile immaginare un suo condizionamento da terzi men che meno da detenuti eccellenti, ma una spiegazione ci deve pur essere. E la vorremmo conoscere.

Se dall’altra parte ci fosse un esponente di altri partiti, nessuno perderebbe tempo a chiedere perché e per come; fior fiori di sentenze ci hanno raccontato le finalità trasversali di chi è arrivato ad occupare ruoli chiave al governo e negli apparati pubblici.

Ma da questi esponenti politici, non più belli o più simpatici degli altri, semplicemente più dinamici sul piano di una concreta lotta alla criminalità, le risposte le chiediamo anzi, le pretendiamo.

Perché francamente è devastante sentire i commenti di chi è arrivato al Parlamento con in tasca le istanze di Messina Denaro, bloccate dal M5S, chiedere le dimissioni di Bonafede per quanto accaduto ieri con Di Matteo quando prima d’ora, menzionavano questo nome solo per renderlo bersaglio di accuse infamanti.

E’ inaccettabile il valzer di commenti che, come accaduto ieri sera, non hanno dignità né ragione di essere espressi. Da chi? Da chi riempie di lavoro tutte le procure d’Italia con reati di ogni genere e poi si presenta negli studi televisivi e scrive le domande che i conduttori gli faranno?

Siamo oggi sottoposti, a causa di questa vicenda, alle vergognose illazioni di pseudo giornalisti che sognano momenti come questo da anni per buttare palate di fango su entrambi.

I fatti devono valere più di tutto il resto. Perché Di Matteo, pur avendo accettato la carica di Direttore del DAP, non ha potuto dar seguito all’incarico? Possiamo conoscere la risposta senza passare per postriboli altrimenti detti “trasmissioni di approfondimento”?