Nel 1347, probabilmente proveniente dalle steppe settentrionali della Cina, arrivò in Italia la peste nera, la prima letale pandemia conosciuta. Aveva avuto inizio nel 1346 e dopo avere viaggiato attraverso la Siria, la Turchia e la penisola balcanica era sbarcata in Sicilia. Nel 1348 risultava contagiata tutta l’Italia e parte della Svizzera. Furono colpite poi la Francia, la Spagna, l’Inghilterra e l’Irlanda. Un percorso lento e implacabile che soltanto nel 1453 vide esaurirsi tutti focolai.
Aveva causato la morte di circa venti milioni di persone, pari ad un terzo della popolazione del continente.
Il batterio colpevole di questa prima pandemia fu isolato soltanto alla fine del XIX secolo. La trasmissione avveniva dai ratti agli uomini attraverso il morso delle pulci.
La paura attanagliava le popolazioni che, dovendo comunque attribuire a qualcuno la responsabilità di una malattia pressoché letale (moriva circa il 75% delle persone contagiate), ritennero di doverne attribuire la responsabilità agli ebrei e allo stesso Dio, disgustato dal comportamento degli uomini.
La medicina di allora non conosceva sistemi idonei per combattere il morbo, soltanto palliativi per evitare il contagio. Nacque anche un movimento cattolico, formato da varie sette religiose e da componenti degli ordini religiosi ufficiali, i flagellanti, che in lunghe pubbliche processioni si auto infliggevano punizioni per ottenere la clemenza divina.
Dio, attraverso la sua espressione terrena, sembrava l’unico potere in grado di arginare la malattia.
Fra il 1918 e 1920, cioè a partire dagli ultimi mesi della Grande Guerra, una nuova pandemia, la cosiddetta Spagnola, causata dal virus influenzale H1N1, colpì in due ondate l’Europa, diffondendosi ben presto in tutto il mondo, con casi riscontrati anche nelle sperdute isole del Pacifico e nell’Artico.
Le vittime questa volta si aggirarono intorno agli ottanta milioni di persone, pari circa al 4% della popolazione mondiale. Per avere una idea della rapidità del contagio e della sua virulenza, si può tranquillamente affermare che in 24 settimane causò più decessi di quanti ne abbia determinato l’AIDS in 24 anni.
Secondo gli studiosi furono le particolari condizioni di malnutrizione, mancanza di igiene, ospedali di fortuna e ammassamento delle persone in spazi ristretti a rendere questa epidemia influenzale particolarmente letale. Le stesse motivazioni legate al conflitto bellico non permisero di identificare l’origine del contagio. Anche il nome Spagnola, non deriva dalla provenienza del ceppo infettivo, ma dal fatto che la Spagna non era coinvolta nella guerra, e la sua stampa, non soggetta alla censura, fu l’unica a rivelare le notizie sulla gravità della diffusione e della virulenza della pandemia, laddove gli altri stati invece tendevano a dichiarare l’influenza circoscritta alla sola nazione iberica che ne parlava.
Varie teorie sono state ipotizzate per stabilire il centro di diffusione della pandemia influenzale, identificato ora in una base americana di addestramento militare delle reclute destinate a partecipare alla guerra, ora nel campo militare con ospedale di Etaples in Francia, in base agli studi effettuati da una equipe di patologi militari ivi presenti nel campo e che avevano riscontrato l’insorgenza della una nuova patologia ad alta mortalità, successivamente classificata come influenza. Nel campo ogni giorno transitavano più di 100.000 soldati feriti e quindi era un luogo ideale per la diffusione della malattia. Fu anche ipotizzato che il virus, ospitato negli uccelli, ben presto fosse riuscito a mutare riuscendo ad infettare una colonia di maiali allevati in una vicina fattoria.
Una teoria propugnata dagli scienziati del centro Pasteur, invece, sostenne che l’epidemia avesse avuto origine nell’Asia orientale: un virus proveniente dalla Cina che era trasmigrato in America e da qui si era diffuso nel resto del mondo attraverso le truppe statunitensi.
L’ipotesi più recente è di uno storico canadese che in base ad alcuni documenti recentemente rinvenuti, sostiene che esistono le prove di una grave malattia respiratoria che nel novembre 1917 aveva colpito la Cina, successivamente classificata come influenza con le stesse caratteristiche di quella spagnola, e che nello stesso periodo erano stati mobilitati 96.000 lavoratori cinesi a prestare servizio dietro le linee degli alleati, sul fronte occidentale.
Nel 1996 insorge un nuovo allarme legato all’influenza aviaria, così detta perché colpisce gli uccelli, ma ormai trasmissibile anche al genere umano, come è stato dimostrato a partire dal 1997. Il virus era stato già identificato in Piemonte nel 1878, mentre nel 1923 uno studioso americano ne aveva coltivato nel suo laboratorio una colonia che però ben presto aveva colpito gli allevamenti newyorchesi, ma debellata nell’arco di un anno.
Nel 2003 la peste aviaria si sviluppa nel sud-est asiatico e da qui nel 2005 raggiunge l’Europa per poi diffondersi nel resto del mondo.
La storia quindi si ripete con inquietanti analogie, ma questa ultima pandemia non dovrebbe allarmarci eccessivamente, soprattutto in considerazione di mezzi e conoscenze che caratterizzano la moderna medicina.
Perché allora tutto questo caos?
Molto rumore per nulla?
In Cina, dove ha avuto origine l’epidemia, nelle provincie povere e poco attrezzate da un punto di vista sanitario, i casi mortali sono ancora contenuti. Gli altri focolai conosciuti hanno determinato il decesso di poche persone che, tra l’altro, è stato accertato fossero già in precarie condizioni di salute.
Si potrebbe perfino ipotizzare che molti di noi abbiano già contratto il coronavirus e l’abbiano superato egregiamente senza rendersene conto ed evitando inutili allarmismi, per fortuna, perché forse il vero problema di queste pandemie è che il nostro Sistema Sanitario Nazionale e la Protezione Civile non sarebbero in grado di gestire validamente un ricorso di massa alle strutture ospedaliere.
A spaventarci, però, è la rapidità del contagio o, più verosimilmente, l’impossibilità di creare barriere valide fra noi e il pericolo. La peste del 1346 impiegò due anni per approdare dalla Cina in Europa, né più e né meno che lo stesso tempo occorrente ad una carovana di mercanti per spostarsi da un continente all’altro. Oggi le distanze si superano in poche ore: ti svegli a Pechino alle 7 del mattino e la sera dello stesso giorno puoi cenare a Roma alle 21 in una trattoria di Trastevere.
Il nostro mondo, il target del nostro benessere non riesce a concepire limitazioni di spazio e di tempo nella continua proiezione tesa a garantire la crescita a dismisura dei mercati. I nuovi sistemi produttivi non conoscono frontiere: compri il cotone in India, lo trasformi in tessuto in America, tagli il modello in Italia, lo cuci in Cina, lo confezioni chissà dove per poi esportarlo in tutto il mondo. E questa perversa catena vale anche per il cibo confezionato e qualsiasi altro prodotto per il solo scopo di abbattere i costi e renderlo competitivo: abbiamo creato uno sviluppo assolutamente insostenibile.
I nostri sistemi sono dunque vulnerabili e noi non lo possiamo accettare, abbiamo perso ogni forma di umiltà difronte ad ogni limite fisiologicamente etico; abbiamo perso quell’indifferente fatalismo con cui nel passato veniva accettata la morte prematura, specialmente quella di bambini. Oggi siamo pronti a fare causa ad un medico perché il nonnino centenario investito da un camion non è stato resuscitato.
L’attentato alle Twin Towers docet: in cambio di una presunta sicurezza gli americani hanno accettato il controllo a 360° dello stato sulle loro azioni e sui loro pensieri.
Anche noi ci stiamo avviando verso la perdita di lucidità e lungimiranza e questo è il modo migliore per farci manipolare da chi cavalcherà questa tigre, assicurandoci protezione in cambio delle nostre anime.
Altro che patto col diavolo!